Ci sono famiglie in cui la parola «affido» è naturale, fa parte del vocabolario comune. Come quella di M. e G., una coppia che viveva in provincia di Ravenna quando ha deciso di candidarsi per accogliere un minore in casa. Una scelta che per M., la futura «mamma affidataria», si agganciava al suo passato di bambina, a sua volta, affidata: «Vista la mia storia – racconta lei – ho sempre pensato che l’affido fosse qualcosa di normale, da prendere in considerazione. E insieme a mio marito, con il quale il progetto di un figlio biologico non ha mai preso piede, è stato abbastanza facile indirizzarmi verso quella strada, coscienti che l’affido non significasse “adozione”, ma inclusione e sostegno». Quando la coppia si è rivolta al Centro per le famiglie per iniziare il percorso, l’idea di proporsi per un ragazzo o una ragazza in età adolescenziale era abbastanza chiara: «Noi non ci immaginavamo accanto a un bimbo piccolo ma a una persona più grande, e quando ci è stato paventato l’abbinamento con un 16enne del Gambia che aveva espresso il desiderio di una collocazione diversa rispetto alla casa famiglia che lo stava accogliendo, abbiamo subito aderito con entusiasmo». L., a suo tempo, era un minore straniero non accompagnato, arrivato in Italia senza genitori o adulti responsabili per lui: «Per conoscerci e sentirci tutti a nostro agio, abbiamo impiegato circa un mese: una cena in pizzeria, una passeggiata, e poco a poco abbiamo rotto il ghiaccio. Poi, il giorno in cui abbiamo chiesto a L. se avesse voglia di andare all’Ikea a comprare la sua camera, abbiamo fatto un lungo passo in avanti. Perché finalmente stavamo dando concretezza a qualcosa che era stato, fino a quel momento, solo nell’aria». L’affido di L., poi, si è rivelato per tutti un’esperienza indimenticabile: «Noi siamo stati sempre consapevoli che l’affido doveva servire a L. per prendere il volo, per avere un’opportunità in più di diventare autonomo. Abbiamo sempre rispettato la sua cultura, i suoi valori e la sua famiglia d’origine, con la quale abbiamo mantenuto un costante contatto. Dentro casa, le cose sono andate benissimo. Tante battaglie, invece, le abbiamo dovute combattere fuori». Contro la burocrazia, prima di tutto, per esempio quando si è trattato di dover tesserare L. con la sua squadra di calcio. O contro pregiudizi e sguardi obliqui, quando le persone erano morbosamente curiose, o stupite davanti alla composizione familiare: «Il nostro obiettivo è sempre rimasto quello di permettere ad L. di integrarsi e realizzarsi e ci siamo accorti che questo passava attraverso anche la sua protezione. Lui sapeva che, ogni volta che ne avesse sentito il bisogno, era assolutamente
autorizzato a dire di essere nostro figlio». Dopo la fine formale dell’affido, al compimento della maggiore età, L. è rimasto ancora un po’ con M. e G.. Adesso, invece, ha trovato lavoro fuori regione: «Restiamo comunque una famiglia, siamo sempre in contatto e appena possiamo passiamo del tempo insieme. La nostra famiglia è come una tribù, dove ci si può sentire accolti e inclusi. E l’affido, lo diciamo sempre, salva le vite»